Erminia Passannanti

Alba


Ebbi stanotte un carro rovesciato
sull'erta dell'aurora
da cui rotolavano a valli sacchi
di grano sullo sfondo
di un grande sole arancio. Il mulo
s'era tirato in piedi sulle zampe
e se ne andava a testa china zoppicando
lungo la linea vivida del giorno.

Raccolgo
ai piedi di quell'erta
un sacco strepitante. Mi slaccio il corsetto,
gli offro il mio capezzolo.

                         Dawn


I had an upturned cart tonight
On the ridge of dawn
From which there rolled downhill
Sacks of grain
Against an orange sun, the mule
Had pulled himself up on his hooves
And went head bent limping
Down the bright line of day.

I pick up
At the foot of the ridge
A screaming sack, unloose
My corset, offer him my nipple.


	
	
	
	
Di notte

	
	
Se fossi stata
unicamente tua
quale infelice animale
avrebbe fatto incursione
nei tuoi sogni
disturbato i tuoi giorni
azzannandoti alla nuca

l'inquieta faina
il gatto selvatico
l'avida lupa?

Se sul tuo collo
e sul tuo petto esposto
- azzurro e lacrimante
come il corpo di Cristo
avessi lasciato il mio morso

se prima di sera
e prima della notte
con sospiro affannoso
- l’ origliare sommesso
alla mia porta
t'avesse informato

senza possibilità d'errore
della mia vera natura
(questa ferita aperta)
a chi - altro da te -
non uomo, nè bestia,
avresti chiesto di porsi
disarmato all'ascolto…?


Oxford, 19. 4. 2002

                                              At night
	
	
If I had been
yours alone
what unhappy animal
would have made incursions
into your dreams
disturbed your days
sinking its fangs in the nape of your neck

the restless beech-marten
the wild cat
the greedy wolf?

If on your cheek
and on your exposed chest
- blue and tearful
like the body of Christ
I had left my bite

if before evening
and before nightfall
- with gasping breath -
the humble eavesdropper
at my door
had informed you

with no possibility of error
of my true nature
(that open wound)
who - except yourself -
what man or beast
would you have asked to go
unarmed to listen?




Sulla poesia come vocazione

Vi sono periodi lunghi in cui mi sembra come se avessi ricevuto un specie d'ingiunzione a scrivere. In quei lassi di tempo, mi ritrovo intenta a comporre poesia su base quotidiana, con lo zelo di un rituale. Ma, al contempo, questo ritmo, questa alacrità m'appaiono come una forzatura, una sorta d'obbligo autoimposto. E' comprensibile che la persistenza di una percezione che adduca alla scrittura il carattere di lavoro e routine possa risultare opprimente, causando disillusione e spossatezza in chi un tempo abbia creduto nella poesia come vocazione. D'altro canto, se non avessi questo genere incertezze, quei rari giorni quando mi sento relativamente più ispirata avrebbero poco significato. Questa è la ragione per la quale paragono più volentieri i miei versi migliori ai giorni di festa, un'attitudine che riconosco essere quella di una suora veneziana del Cinquecento. Sto pensando a quelle vergini costrette a prendere i voti, che con maggiore eccitazione e impazienza, dunque, attendevano la frenesia delle festività.

In effetti, mi dico, lo scrivere qualcosa che mi soddisfi veramente accade con la stessa rara frequenza con cui prendo la comunione, vale a dire in media una volta all'anno. In quelle occasioni, scrivo poesie che non mi costano nessuno sforzo, come si accetta un regalo o un dolce di compelanno, dopo di che rimorso ed urgenza di digiuno mi assalgono per controbilanciare lo spreco di creatività e gioia pura. Scherzi a parte e tenendo conto del fatto che la vasta maggioranza delle poesie che ho scritto fin ora concerne, in modo diretto o camuffato, una religiosità sinistra e privata, rettificherò lievemente la suddetta dichiarazione: a prescindere dai toni scherzosi con cui ho descritto la pratica poetica, sia essa attività quotidiana o gestualità enfatica e celebratoria, il significato ultimo che essa ha per me resta nel fatto che veicola una sorta di aspettativa in qualcosa di là da venire, sempre da rivelarsi.



On poetry as vocation

There are long periods when it seems to me that I have received a kind of injunction to write poetry. In those laps of time, I find myself composing poems almost on a daily basis, with alacrity, as a ritual. Yet, I equally feel that this discipline has been forced on me. The persistence of this somewhat oppressive sensation of writing as labor and routine would be a source of disillusionment and fatigue for anybody who regards poetry as vocation.

If I did not have this impression, those rare days when I feel truly inspired would have little meaning. For these reasons I associate my best writing to feat-days, like any Renaissance nun would do. I am thinking of those virgins who had unwillingly taken the vows and who would therefore most impatiently await the feats for some true excitement. As a matter of fact, I write poetry that I feel completely content with as rarely as I take the communion: on average, once a year. In those occasions, I write without any effort poems which appear kind of celebratory gifts or meals, after which remorse and the need for fasting assail me to counterbalance the waste of creativity and pure joy.

Jokes apart, and considering the fact that the vast majority of the poems I have written deals with a disguised kind of religiosity, I am going to slightly rectify the above statement: beside any playful description of poetry either as a daily activity or a deed for holy days, the ultimate meaning of it for me relies in the very fact that it conveys a sort of expectation of something delayed, yet to be revealed.




e-mail the poet at erminia.passannanti@talk21.com
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